Chi ha paura dell'uomo vegano?

sexy-vegan.jpg Da AnimALiena, una risposta all'articolo di S. Thanopulos su "Il Manifesto" contro il veganismo.

Chi ha paura dell'uomo vegano?

Per Sarantis Thanopulos, essere al centro delle polemiche non è una novità: i suoi articoli sono stati frequentemente in grado di scatenare reazioni tanto infiammate quanto giustificate, come quando nell’estate del 2013 pubblicò, sempre sul Manifesto, “Non è violenza di genere“, un pezzo nel quale confutava l’esistenza stessa della violenza di genere in virtù della complementarietà di uomini e donne (scatenando l’ira comprensibile di innumerevoli femministe), o quando, all’incirca un anno dopo, nell’articolo “L’autismo e l’ipocrisia“, sosteneva la legittimità di insultare chicchessia – in quel caso specifico Matteo Renzi – dandogli dell’autistico.

Da questi pochi accenni appare evidente l’adesione (consapevole o meno) di Thanopulos al paradigma dell’uomo “misura di tutte le cose” che, dalla centralità del suo posizionamento, privilegiato e iniquo, continua a perpetuare quella norma sacrificale valida solo fintantoché, a farne le spese, è l’altr* da sé. Non stupisce, dunque, che abbia finalmente deciso di esprimere la propria personalissima e situata (quanto non richiesta) opinione rispetto alla questione animale, in un articolo di pochi giorni fa dal titolo “il gusto e l’uomo vegano“.

Lo scritto in questione parte da una premessa tanto contorta quanto strumentale: ovvero, che l’astensione dal consumo di qualsiasi prodotto derivante dallo sfruttamento degli animali abbia poco o nulla “a che fare con la crudeltà nei confronti degli animali”, seguita da un’affermazione tanto soggettiva ed infondata quanto presentata come logica ed autoevidente, ovvero che “l’amore per gli animali cresce in modo inversamente proporzionale all’amore per gli esseri umani”.

Già dall’esordio appare chiaro come Thanopulos sguazzi in un universo fatto di dualismi oppositivi, e che la sua analisi non sia capace di distaccarsi dalle categorie gerarchizzanti di maschile e femminile, normale e deviante, umano e animale, e così via.

La questione, dunque, non riguarderebbe l’animale e tantomeno la compassione nei confronti dell’oppressione della quale è (recalcitrante quanto invisibilizzata) vittima, di più: la sollecitudine nei confronti del non umano tradirebbe un’incapacità di relazionarsi all’umano (un “umano”, peraltro, tanto generico e virtualmente paradigmatico – e dunque tanto più irreale – da perdere qualunque significato).

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