Uno stigma ambulante
By Veggie Pride Staff on Monday, July 26 2021, 16:18 - Permalink
di Giulia Barison
Sono diventata vegetariana a 13 anni. All’epoca non sapevo dire bene il perché, sentivo semplicemente che era sbagliato mangiare, e quindi uccidere, gli animali non umani. Mi dava fastidio, un fastidio in nessun modo diverso da quello che provavo quando a Treviso assistevo a (micro-)aggressioni contro persone nere o senzatetto, quando i miei compagni di classe alle scuole medie prendevano in giro la ragazza disabile, quando gli stessi continuavano a toccare i seni della mia compagna che si era sviluppata prima delle altre, ça va sans dire, senza il suo consenso. Non è stato facile: non conoscevo direttamente persone vegetariane, quelle che conoscevo indirettamente erano sostanzialmente maestrə di yoga mancatə che praticavano la macrobiotica e che dicevano di amare gli animali, soprattutto cani e gatti.
In Veneto ad oggi non esiste nemmeno un rifugio, come non esistono collettivi militanti antispecisti, figuriamoci 14 anni fa. Esiste una bella scena musicale, quella hardcore, che tipicamente porta con sé istanze straight edge e vegetariane, ma la mia esperienza è che anche questa sia diventata una moda identitaria più che un’ideologia politica condivisa. Il Veneto è la patria della cementificazione, della caccia, degli affettati e delle signore in pelliccia che affollano le chiese la domenica mattina (questa è più che altro Treviso). 14 anni fa non esistevano ristoranti vegetariani, non esistevano opzioni vegetariane, il kebab era kebab perché i falafel non se li filava nessunə e i ristoranti cosiddetti “etnici” erano ancora una piccola luce in fondo al tunnel. La mia scelta è stata costantemente ostacolata e derisa da amicə e parenti, da coetaneə e da estraneə, persone che probabilmente non si sarebbero fermate per strada nemmeno se mi avessero vista morire dissanguata, ma che diventavano improvvisamente interessate alla mia salute quando scoprivano che ero vegetariana. Era un interesse sui generis, a dirla tutta, perché in fondo ciò che si auguravano più o meno esplicitamente era che le mie carenze di proteine, vitamina B12 e ferro portassero alla morte per deperimento me e tutte quelle persone vegetariane a cui però, paradossalmente, non auguravano le lame, ma «solo il salame». C’erano poi quellə dell’isola deserta abitata solo dai conigli, quellə delle mucche non allattate che scoppiano, quellə delle mucche che scoreggiano troppo e che quindi bisogna ucciderle, quellə delle persone vegane mangia-soiaavocadoquinoa che distruggono il pianeta. E, a dimostrazione che il maschilismo e lo specismo sono legati a doppio filo, quale migliore occasione per chiedere a una ragazza se si prodigasse in fellatio (dal momento che lo sperma è un derivato animale), se allattasse, se fosse contro l’aborto, se fosse frocia – perché doveva necessariamente preferire la patata alla salsiccia. E così diventavamo più vacche, più scrofe, più porche, più troie, più cagne, più zoccole: non solo eravamo più vicine a questi animali, dato che li «amavamo», ma mangiavamo pure come chi di loro faceva parte dei piani più bassi della catena alimentare. Ricordo una vignetta che mi inviarono quando diventai vegetariana: una mucca defecava su un prato e la didascalia diceva «vegetariano, la mia cena caga sulla tua». Ero uno stigma ambulante, ero l’elefante nella stanza di ogni momento di convivialità, ero quella che doveva subirsi interrogatori, lezioncine ignoranti e non richieste e prese in giro, mentre cercava di distogliere lo sguardo da ciò che friggeva nella pentola o sul barbecue, sapendo che quell’odore di morte mi sarebbe rimasto impregnato sulla pelle per giorni. Nei casi peggiori la morte finiva dritta nel mio stomaco, nascosta da qualche simpaticonə nel panino o in mezzo alle verdure. «E fattela una risata! Voi vegani non dovreste essere così violenti però!». La vegefobia esiste eccome, ma in fondo me ne sono sempre fregata. C’è chi mi considera una spacca gonadi da record, lo penso anche io, però spesso questo deriva dalla mia testardaggine. Le prime vittime dello specismo indiretto, quello che subiscono lə alleatə umanə, rimagono comunque gli animali non umani, quelli schiavizzati, abusati, dissezionati, smembrati, quelli la cui vita si calcola in euro al chilo. Per questo motivo non c’è mai stato abuso che tenesse: ho sempre continuato (più o meno consapevolmente) ad essere loro complice e a resistere al loro fianco. Con gli anni ho imparato (e questo lo spiega molto bene Simonsen in “Manifesto Queer Vegan”) che ero davvero quella che rovinava i momenti di convivialità, ma non perché ponevo dei limiti alle persone onnivore che li dovevano condividere con me, ma perché la mia sola presenza in quei momenti metteva in discussione tutto. Con gli anni ho anche imparato che quel mettere in discussione tutto vuol dire decostruire il privilegio di specie, quello che ogni sapiens, anche quellə più marginalizzatə, ha. Torno a quella bambina di 13 anni, con troppo trucco sugli occhi e quella rabbia costante, e penso che senza leggere grandi filosofi, senza che le venissero impartiti grandi insegnamenti e con una buona fetta di mondo che le remava contro, quel privilegio l’ha progressivamente decostruito. Dopo 14 anni tante cose sono cambiate: non mi trucco quasi più, ma quella rabbia rimane, come rimane il mio corpo, qui, a lottare e resistere a fianco di tutti gli altri corpi marginalizzati, umani e non.