Il potenziale queer del veganismo: dalla solidarietà agli animali alla sovversione degli stereotipi di genere
By Veggie Pride Staff on Wednesday, December 24 2014, 08:31 - Permalink
Testo presentato alla seconda edizione di Liberazione Gener-ale, svoltasi a Verona il 24 maggio 2014. Il testo affronta i temi della vegefobia e dell'omotransfobia, esplorando limiti e potenzialità di un paragone fra questi due concetti.
Gli altri contributi presentati e discussi durante la giornata possono essere scaricati dal blog del Collettivo Anguane
Fonte: liberazioni.noblogs.org/
Il potenziale queer del veganismo: dalla solidarietà agli animali alla sovversione degli stereotipi di genere
di Marco Reggio
Come tutte le istanze di cambiamento radicale, la liberazione animale significa, per alcuni soggetti, mettere in discussione i propri privilegi. Come accade nell’ambito del sessismo, rinunciare al proprio status di dominante – o almeno agli elementi più dipendenti dalle scelte individuali – è una sorta di precondizione necessaria per partecipare alle lotte da parte dei soggetti privilegiati. Nel caso dell’antispecismo, mentre gli animali altro-da-umani si ribellano quotidianamente nei luoghi di sfruttamento, l’espressione della solidarietà da parte degli umani passa necessariamente per la rinuncia a godere, almeno in parte, dei vantaggi derivanti da tale sfruttamento.
La pratica vegan può essere letta in tal modo e può essere esaminata a partire da un’ottica intersezionale, per cui le forme di oppressione e discriminazione si intrecciano: non si limitano a sommarsi, ma si potenziano a vicenda, ciascuna con le proprie specificità. In tal senso, è interessante prendere in considerazione il vegetarismo maschile, in cui i soggetti rinunciano ad alcune prerogative umane (allevare e uccidere altri animali per cibarsene), ma contemporaneamente ad alcuni caratteri considerati tipicamente maschili (lo stereotipo diffuso vuole gli uomini “predatori”, carnivori e insensibili). Alla prima affermazione di solidarietà, quella verso gli animali da carne, si contrappone la vegefobia, negazione simbolica del vegetarismo tesa a rimuovere lo sfruttamento animale e quindi a sostenerlo materialmente. Contro la seconda rinuncia, vengono messe in campo versioni più o meno esplicite o consapevoli dell’odio omofobico: “se non mangi la carne sei un finocchio”.
Se i vegan in generale tendono a negare l’esistenza della vegefobia, i maschi vegan tendono a respingere le (velate) accuse di omosessualità negandola, e spesso rimarcando la propria mascolinità “doc”. Al contrario, è interessante vedere come il potenziale straniante, deviante (queer?) del veganismo, se riconosciuto, possa aiutare gli attivisti antispecisti a mettere in discussione radicalmente il modello di mascolinità dominante, l’eterocentrismo e il binarismo di genere.
Il presente contributo sviluppa questi temi attingendo principalmente al testo di Rasmus Simonsen, Manifesto queer vegan, le cui tesi salienti sono state presentate a Verona il 24 maggio. Vengono poi brevemente discusse alcune questioni emerse durante la giornata e riassunte da Egon Botteghi nel suo scritto Siamo tutte frocie: mettere a frutto il potenziale queer del veganesimo.
Un veganismo che disturba
Il punto di vista di Simonsen è, dichiaratamente, un punto di vista parziale. Non tanto e non solo perchè l’autore è vegan, ed intende il veganismo in senso politico (come spiega nell’intervista che segue la traduzione italiana del suo Manifesto), quanto perchè prende parola in quanto maschio non omosessuale. Il fatto che questa presa di parola sia situata è importante sia perchè non pretende di parlare per tutt*, nè di fornire un significato ultimativo, in grado di spiegare il veganismo come fenomeno politico, sia perchè permette di mostrare come la solidarietà con gli animali metta in moto dispositivi, strategie di normalizzazione, elementi discorsivi che in definitiva non vedono i diversi soggetti (vegan) posizionarsi nello stesso modo. Nonostante l’insistenza identitaria sul termine vegan, non è la stessa cosa rifiutarsi di mangiare corpi animali da maschi che opporre un analogo rifiuto da femmine. Non è la stessa cosa, per un uomo o una donna del ceto medio occidentale e per un* african*, o ancora per un* cinese. Il fenomeno stesso condensato nel neologismo “vegefobia” è una cartina di tornasole del modo in cui la violenza sugli animali si intreccia con i dispositivi normalizzanti che operano incessantemente in altri ambiti, primo fra tutti il dispositivo eterosessista.
Dichiarare il proprio veganismo può pertanto essere accostato al coming out di individui queer. Ad esempio, quando informai i miei genitori che intendevo diventare vegano, mia madre scoppiò in lacrime e disse: «Come potrò ancora cucinare per te?!». Nel mio contesto familiare, il perturbamento non intenzionale causato dalla mia scelta suonò, a dir poco, straniante queer: il ruolo di mia madre come nutrice veniva, a suo modo di vedere, messo a repentaglio e ogni pasto che avrei consumato in famiglia avrebbe sfidato abitudini alimentari antropocentriche. Rifiutando non tanto il cibo animale quanto, peggio ancora, la modalità stessa dello stare insieme che si realizza intorno al desco familiare, sarei diventato un «guastafeste», «quello che si mette di traverso nella solidarietà organica» che si instaura nell’atto di mangiare (Ahmed, 2004, 213). La mia decisione aveva messo in dubbio la funzione della tavola, a cui Ahmed si riferisce come a un «oggetto parentale» (Ivi, 46), al luogo della coesione familiare; il cameratismo, la forza affettiva che mi legava al resto della famiglia non poteva più essere data per scontata. Opponendosi all’uccisione di esseri di altre specie, i vegani possono effettivamente, e ironicamente, trasformarsi negli «assassini» «della gioia familiare» (Ivi, 49). Niente più pasti “felici” insieme. Non solo: dato che in futuro mia madre non avrebbe più potuto continuare a svolgere lo stesso «lavoro di servizio» femminile (Cudworth, 2010, 82) per me e per gli altri componenti della famiglia, la mia scelta poneva in discussione anche l’ordine eterocentrato dello spazio domestico.
Le accuse di essere omosessuali che colpiscono, più o meno esplicitamente, i vegetariani possono trovare due tipi di risposte. La prima, che non riconosce l’aspetto omofobico di questi atteggiamenti, è quello analizzato da Simonsen in relazione ad un video della PETA, la famosa organizzazione per i diritti animali americana, un video in cui la propaganda a favore di tali diritti si gioca tutta su una rappresentazione dell’affettività e della famiglia eterosessista che rinforza gli stereotipi di genere, sacrificando di fatto sull’altare dei diritti animali tutti i soggetti non conformi a tale idea di “normalità”. Analoghe sono le risposte, date della stessa associazione ma rilevabili anche fra posizioni diffuse fra gli attivisti maschi, che fanno appello alla virilità dei vegetariani: tutte risposte che all’accusa di omosessualità oppongono una fiera iper-eterosessualità. Questa tendenza, a ben pensarci, rende gli omosessuali (maschi) ancora più invisibili, nell’ambiente vegan, di quanto non siano in quello carnivoro. La risposta auspicata da Simonsen è quella opposta, quella di rivendicare l’omosessualità vegan o quantomeno l’attitudine queer. Ma non in nome di una tolleranza paternalistica per i vegan “diversi”, anzi. Il veganismo dovrebbe “sfruttare” il suo potenziale disturbante, perturbante, scomodo, quella capacità inevitabile di mettere in discussione categorie fisse come quelle legate alla sessualità.
La politica vegetariana è potenzialmente un elemento disturbante proprio perché la carne è intrecciata con il mantenimento dello status quo, specialmente per quanto riguarda le idee dominanti di ruolo maschile/femminile, di corpo sano/malato, di sessualità accettabili/non accettabili. Alcuni dei punti di contatto fra carne e gender, carne e censo, etnia, posizione sociale, sono stati indagati a fondo a partire dall’opera di Carol Adams che ha evidenziato come la carne sia un alimento legato al patriarcato. La dieta carnea, come l’eterosessualità obbligatoria, è anche strettamente legata alla riproduzione, un ambito investito fortemente di potere, di desiderio, di elementi ideologici. L’ossessione per la riproduzione – come mostra Simonsen con riferimento a Lee Edelman – produce nella nostra società enormi pressioni verso specifici modelli familiari, specifiche pratiche sessuali e… alimentari. Tutte queste pratiche, storicamente determinate e tutt’altro che neutre, sono dunque presentate come naturali (il veganismo nella versione di Simonsen è queer proprio in riferimento al queer come pratica che agisce contro la “naturalizzazione”, non solo nel campo del gender, ma in senso lato). Veganismo e omosessualità condividono una diffidenza che si concentra sulla figura del bambino, da entrambe simbolicamente (e non solo simbolicamente) minacciato: veganismo e omosessualità mettono in crisi la perpetuazione della specie e la proiezione della società presente nel futuro. Per questo la vegefobia grava soprattutto sui genitori, seppur senza produrre effetti paragonabili alla violenza omofobica. Questo elemento spiega anche un altro tipo di inquietudine che il veganismo suscita e che può costituirne una potenzialità finora quasi inespressa. Non mangiare animali, a differenza delle pratiche sessuali, rappresenta una condotta difficilmente occultabile e che si manifesta quotidianamente, ogni volta che siamo a pranzo o cena con altre persone. Questa pratica ricorda – al di là delle nostre intenzioni – che i referenti assenti nei piatti sono, ovunque, dei cadaveri. Uno degli atti vitali per eccellenza – nutrirsi – è permeato di morte. Una morte certamente rimossa, ma che il veganismo riporta al centro della scena. Questo è dunque un altro motivo di fastidio per chi siede a tavola (secondo un filone della critica queer, l’omosessualità assolve in qualche modo un’analoga funzione: si veda per es. l’opera di Leo Bersani). Anche in questo caso, si verificano delle reazioni, che si esprimono nelle accuse di essere “tristi”, “moralisti”, “ascetici”, ecc.. E anche qui sono possibili due risposte. La prima rinforza il paradigma dominante e – con accondiscendenza – spiega che il vegano è “positivo”, portatore di vita, di vitalità, di amore. La seconda assume su di sè, invece, proprio il carico di negatività del veganismo, portando la morte in tavola e, letteralmente, rovinando il pasto ai commensali. In generale «i queer e i vegani ri-assegnano o negano schemi di esistenza che, nella maggior parte dei casi, dipendono dalla corporeità, che viene depotenziata e sottoposta alla presa di classificazioni sociali e culturali che decidono che cosa un ‘buon’ corpo debba fare, come debba apparire e che cosa debba desiderare», per dirla con le parole di Simonsen stesso. Per inciso, la questione della riproduzione è ben più ampia qui, di quello che può suggerire il riferimento all’ideologia familista in ambito umano, poiché lo sfruttamento stesso degli animali non è neutro rispetto al sesso: buona parte degli animali imprigionati negli allevamenti viene sfruttato per le sue funzioni riproduttive, per esempio. In particolare le femmine sono sfruttate nella loro maternità. Un altro ambito di studio importante per l’attivismo sarebbe quello che esplora le potenzialità di solidarietà fra madri (e fra genitori in generale) di specie diverse, considerando per esempio il rifiuto del latte vaccino in quanto frutto di un esproprio violento nel vissuto delle madri umane vegan.
Questo potenziale disturbante del veganismo, bisogna dire, non investe soltanto il legame fra eteronormatività e veganismo maschile, proprio perchè l’alimentazione è collegata in modo complesso alla sessualità, alla divisione sessuale del lavoro, ai modelli familiari, alla visione medica sessualizzata dei corpi, e a molti altri aspetti. A conferma di questo, la vegefobia si intreccia con la misoginia, con la patologizzazione del dissenso, con la negazione dell’autodeterminazione dei (e soprattutto delle) minorenni, producendo particolari tonalità e dispositivi di depotenziamento della solidarietà verso gli animali, per es. con la patologizzazione sessualmente connotata del veganismo delle adolescenti (reinterpretato come anoressia, o come disturbo alimentare femminile di altro tipo). Un altro esempio che mostra la complessità dei piani in cui si intrecciano sessualità e vegefobia è quello dell’impatto della vegefobia sulla divisione del lavoro domestico: quante donne, diventate vegetariane, hanno dovuto continuare a cucinare animali, con le proprie mani, per il proprio partner? E quanti uomini hanno dovuto fare altrettanto? Quello che molte donne esperiscono, con il proprio coming out è molto diverso, e spesso si traduce in una sofferenza quotidiana aggiuntiva (quella di dover prendere comunque parte ad una violenza cui si è scelto di opporsi). D’altra parte, sarebbe interessante studiare come il percorso di eliminazione della carne dalla propria dieta abbia dato ad alcune donne una ulteriore possibilità di mettere in discussione, oltre ai rapporti di dominio fra specie, anche i rapporti di dominio fra sessi nella sfera domestica; e, al tempo stesso, dare voce a quei casi in cui il vegetarismo maschile ha fornito un impulso a ridiscutere i propri privilegi di genere nell’ambito della divisione del lavoro, a partire dalla necessità di cucinare per se stessi le proprie pietanze.
Le analogie fra le potenzialità destabilizzanti del veganismo e quelle delle pratiche queer suggeriscono quindi una possibile alleanza, ma, come avverte l’autore, è necessario fare attenzione a non sovrapporre i due ambiti, appiattendone i rispettivi significati sotto il cappello di qualche principio superiore generico (la normalizzazione, il “dominio”, ecc.), perdendo così le specificità e la possibilità di indagarne più a fondo i nessi.
Omofobia e vegefobia: un paragone osceno?
L’omofobia é garante di un ordine sociale fondato sull’assegnazione dei generi maschile e femminile e sulla costrizione all’eterosessualità. Essa consiste in una serie di dispositivi sociali violenti che mirano a reprimere (attraverso la ridicolizzazione, l’indifferenza…) l’omosessualità maschile e femminile poiché cosituiscono una minaccia all’ordine di genere e alla dominazione maschile. Allo stesso modo, la vegefobia é garante di un sistema fondato sulla differenziazione netta tra animali e umani, sul rifiuto di considerare gli interessi dei primi e sul dominio dei secondi. Anche la nozione di vegefobia raggruppa vari comportamenti che mirano a dissuadere chiunque volesse rimettere in discussione il consumo di carne animale, simbolo più importante della dominazione specista (Riflessioni sulla vegefobia, opuscolo).
Come spiegato da Egon Botteghi, la parola stessa “vegefobia” è stata percepita (anche) con disagio, proprio perchè richiama l’omotransfobia. Al di là del dibattito su quest’ultimo concetto (alcun* vi preferiscono, per es., omotransnegatività), è chiaro che il punto è il paragone stesso fra la condizione vegan e quella di lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali. Un primo elemento di fastidio deriva certamente dall’accostamento fra due fenomeni la cui intensità è diversa: come puntualizza lo stesso Simonsen, mentre gli omosessuali vengono percossi, uccisi o portati al suicidio, i vegetariani vengono derisi o discriminati in alcuni ambiti particolari (il diritto alla salute, per es.). In tal senso, l’accostamento proposto fra coming out vegan e coming out omosessuale non può ignorare questa differenza. “Dichiararsi”, nei due casi, espone a ripercussioni di diversa entità.
Vi sono, ovviamente, altre differenze molto significative di cui tener conto, anche perchè credo che la prima non sia sufficiente a spiegare il disagio emerso. Una, evocata da Botteghi, mi ha fatto riflettere. Si fa notare, sostanzialmente, che mentre il veganismo è sempre una scelta, l’omosessualità non lo è mai. A pensarci, credo che la questione sia più complessa su entrambi i “fronti”. Che l’omosessualità non sia una scelta è opinione comune, ma non è certamente così indiscussa in ambiti più attenti al tema. Quantomeno rispetto a determinati aspetti, si situa al confine fra la scelta e la rivendicazione politica o sociale. In particolare, si pensi a quante azioni che sono bersaglio dell’odio omofobico sono frutto di scelta deliberata almeno in parte: manifestare pubblicamente il proprio orientamento sessuale, prendere parola per i propri diritti di membro di una famiglia non eterosessuale, manifestare pubblicamente aspetti della propria affettività, e così via. Anche in riferimento all’identità di genere, le cose non sono facilmente semplificabili: le persone transgender raccontano con tonalità molto diverse fra loro il proprio percorso, che comprende elementi percepiti come non scelti (per es., avvertire un corpo non corrispondente al proprio genere) ed elementi oggetto di scelte deliberate. Nonostante queste precisazioni, la differenza rispetto al veganismo sembra essere abissale. Se esaminiamo però l’altro “fronte”, il veganismo, appunto, ci sorge il dubbio che la ricostruzione (fatta soprattutto dai/dalle vegan) non corrisponda alla complessità delle storie personali. La parola chiave di questa narrazione è “scelta”. Si “sceglie” di diventare vegan, si “sceglie” di non uccidere. Questo tipo di retorica è diffuso, principalmente, grazie proprio agli animalisti, che vi insistono da decenni ormai. La stessa idea di “diventare” contiene già l’idea che solo il mettere in pratica la solidarietà interspecifica nella forma di un’astinenza permetta di accedere ad un’identità chiaramente definita (quella di vegan). Tuttavia, l’esperienza di molte persone è diversa, o anche diametralmente opposta. Il rifiuto della carne è per molt* una repulsione istintiva, emotiva, tanto da usare espressioni come “non potrei mai”, “non riesco a”. Queste persone non “scelgono” di diventare vegetariane, la loro non è affatto una scelta. Il mondo dei e delle solidali con gli animali da reddito è ben più variegato di quanto una visione identitaria appiattente possa far pensare, e vi convivono visioni del veganismo come scelta, come testimonianza, come impulso, come atto politico cosciente, come imperativo morale, o come un misto di alcuni di questi elementi.
Un’altra differenza significativa riguarda la questione dell’identità. L’omosessuale è oggetto di odio perchè incarna una precisa identità che eccede gli atti omosessuali, un’identità che secondo Foucault è un’invenzione relativamente recente (la questione in sè è controversa, ma in questa sede non è così importante). Il vegano sarebbe invece condannato per delle singole azioni (o meglio, non-azioni), e per il fatto di essere accostato all’identità omosessuale (o alle donne, il che non è la stessa cosa, ma spesso lo è per l’interlocutore). Anche questa idea della vegefobia mi sembra più semplicistica della realtà. Esiste, infatti, un’identità vegana percepita come tale sia dai vegan che dalla società in generale. Questa visione identitaria, del resto, inizia ad essere messa in discussione dall’interno, in un percorso analogo, se vogliamo, a quello del femminismo e del movimento omosessuale, che hanno attraversato delle fasi fortemente identitarie per poi criticarle (almeno in alcune loro componenti). Ad ogni modo, secondo alcuni, la derisione del maschio vegano sarebbe più una manifestazione di omofobia che di vegefobia. Questo è chiaro, ma non mi sembra il punto importante. Simonsen mi sembra sottolinei un aspetto che lo porta a dare un’indicazione chiara sulla risposta alla vegefobia omofobica (e cioè che bisognerebbe rispondere dicendo “sono finocchio, e allora?”): il veganismo ha il potenziale di risvegliare non solo delle inquietudini rispetto ai rapporti con le altre specie, ma anche rispetto al genere, e questo perchè le due cose hanno dei nessi anche molto complessi. Quindi il problema non è se quell’insulto provenga da un’idea ostile nei confronti degli omosessuali/e o dei vegetariani/e, ma in che modo questi aspetti sono legati. Anche l’odio omofobico può nutrirsi e intrecciarsi con altre discriminazioni, per esempio con la misoginia, ma questo non può portare ad un ragionamento analogo a quello sopra, per cui si sottolinea solo un aspetto della questione. Per es.: in parte l’omofobia maschile, soprattutto in passato, era tinta di misoginia. “Se sei frocio, sei un po’ femmina, dunque conti un po’ meno di me, e quindi ti insulto”. Oppure, “rinunci al privilegio di essere il genere superiore, quindi ti meriti gli insulti destinati a quello inferiore”. Non credo che possiamo dire che lì si tratta di misoginia e non di omofobia. Si tratta di un intreccio di entrambe le cose, che insieme ad altre “fanno” i comportamenti che chiamiamo omofobici.
Tutte queste distinzioni dovrebbero mostrarci chiaramente alcune cose. La prima è che le intersezioni fra le lotte, come insegna proprio il pensiero femminista, queer, anti-colonialista, non emergono dalla semplice giustapposizione di istanze (il femminismo “sommato” alle rivendicazioni delle minoranze etniche, la critica queer “sommata” a quella del lavoro precario, i diritti degli omosessuali “sommati” a quelli degli animali…), ma dall’analisi delle modalità in cui diverse forme di oppressione e diversi dispositivi di normalizzazione si intrecciano, potenziandosi, compenetrandosi, ibridandosi e rimandando l’uno all’altro. Questi dispositivi non si limitano a sommarsi, appunto. Dunque, intersezione significa cogliere i nessi e, come dice Botteghi, fare attenzione a non colonizzare un tema piegandolo alle esigenze di un altro.
Un esempio illuminante è quello, recente, di Camilla. Camilla è una mucca fuggita nel luglio 2014 da un allevamento in Toscana. Dopo una latitanza di un mese, in cui le pressioni dei solidali umani hanno permesso di evitarne l’abbattimento, è stata purtroppo catturata e riportata al proprietario. Quando Camilla è fuggita, i giornali hanno sottolineato un aspetto che è servito anche da giustificazione per l’ordinanza comunale che prescriveva la cattura e prevedeva la possibilità di abbattimento. Camilla – dicevano gli articoli – è pericolosa, carica le persone. Esprimevano questo (presunto) carattere con una frase spettacolarizzante e insolita: “è una mucca che si crede un toro”. In queste poche parole, si intrecciavano molti aspetti significativi. Una mucca che evade è già uno scandalo, poiché si sottrae, prima ancora del manifestarsi di qualche forma di compassione umana, ai ruoli che le vengono imposti dai suoi proprietari. Camilla è una fattrice; questo è il suo compito. Oltre che un animale che osa ribellarsi, però, Camilla è anche una femmina. Pertanto, gode – si fa per dire – delle proiezioni dei valori della nostra società, in cui le femmine sono remissive, docili, obbedienti. Un animale, femmina, che si ribella, è dunque un doppio scandalo. Il non senso dell’espressione (una mucca non può “credersi” un maschio, almeno non nel senso linguistico di questo “credersi” che abbiamo in mente noi umani) è però altamente performativo: ricorda e rafforza l’idea di un ruolo di genere che investe anche le femmine animali. Camilla, che le autorità considerano colpevolmente transgender, non può che sbagliare nel “credersi un toro”, sia perchè il suo ruolo è quello di accettare passivamente la reclusione, sia perchè il suo lavoro è squisitamente femminile (viene sfruttata la sua capacità di generare e accudire i vitelli).
In secondo luogo, dobbiamo stare attenti a non assolutizzare mai i punti di vista situati. Quello di Simonsen è un punto di vista maschile, diciamo queer, che propone degli spunti relativi al veganismo femminile, ma che sostanzialmente prende le mosse da un’esperienza dichiaratamente parziale, e sarebbe rischioso e scorretto, in effetti, farne un punto di vista omnicomprensivo. Al tempo stesso, però, molte affermazioni “militanti” di attivist* vegan di lunga data che minimizzano la portata della vegefobia mi sembrano correre il rischio di assolutizzare delle posizioni molto parziali, e spesso privilegiate all’interno della (non)comunità vegan. Per esempio, molti attivisti antispecisti vivono la propria dieta senza prodotti animali in una condizione che assomma una forte determinazione personale, una cultura medio-alta, un alto livello di accesso alle informazioni, l’appartenenza al ceto medio o ad ambienti caratterizzati dal mutuo sostegno, il fatto di vivere in paesi ricchi e in zone urbanizzate con maggiore accesso a una serie di prodotti, unitamente ad altri fattori non trascurabili come, per esempio, la maggiore età. Risulta difficile, in queste condizioni, comprendere le difficoltà, di un bambino o di una bambina che vorrebbero smettere di mangiare animali, di un(‘)adolescente, di una persona di bassa cultura o di basso reddito, maggiormente dipendente, per esempio, dalle opinioni degli specialisti medici, o anche soltanto di una persona non antispecista, non militante, e meno determinata in questa “scelta” (seppur animata dalla contrarietà all’uccisione degli animali a scopo alimentare), e dunque più vulnerabile allo scherno sociale; o, ancora, di una coppia di genitori (o, peggio, di un genitore vegan convivente con un genitore non vegan) sottoposti a forme di pressione sottili e quotidiane. Questo non toglie il fatto che, come abbiamo detto, l’ostilità verso il vegetarismo non porti a violenze paragonabili, neppure lontanamente, alla violenza contro omosessuali e transessuali. Del resto, il fatto che esista un tipo di oppressione più pericolosa non può giustificare il fatto di ignorare quella più “tollerabile”.
Infine, sottolineare le distinzioni necessarie perchè l’analogia di Simonsen sia utile alle lotte, mi porta a ricordare un aspetto fondamentale del dibattito, che forse è stato troppo poco considerato. C’è un aspetto molto peculiare della vegefobia che non dobbiamo dimenticare, e cioè il chi sia il vero bersaglio dello scherno nei confronti dei vegetariani. Ogni volta che qualcuno sminuisce o denigra una persona vegetariana, sta in fondo commettendo un atto che ha effetti immediati sul piano simbolico, soprattutto perchè, come abbiamo detto, di rado i vegan vengono aggrediti fisicamente. Ma il vero obiettivo è un altro, e l’effetto è ben più che simbolico. Si tratta dell’animale: una mucca, un pollo, un maiale, un pesce che sono stati uccisi e verranno uccisi per farne cibo. In questo momento storico, questi animali ricevono solidarietà principalmente nella forma di astensione dalla carne da parte di alcuni animali umani, e mi sembra che minare questa solidarietà – una solidarietà che fa paura – sia un preciso compito dei guardiani della norma sociale. Colpire simbolicamente chi solidarizza con gli animali macellati significa dunque colpire materialmente questi ultimi.
Queste rivendicazioni non rappresentano, come si potrebbe ingenuamente pensare, un’involuzione egoista del soggetto vegetariano, preoccupato di proteggersi e di vedere riconosciuta e tutelata la propria nicchia. Al contrario, si tratta della massima estensione della solidarietà. Una solidarietà che consiste infatti nel proiettare sull’animale non umano, che nella società umana è un non-essere, un vuoto, un nulla, l’essere che a noi è doppiamente riconosciuto, in quanto umani e in quanto cittadini. Difatti, noi abbiamo diritto, fondamentalmente, a non essere negati, né fisicamente, né simbolicamente; ma come vegetariani, viviamo l’imposizione di una negazione da parte della società, che non riconosce la nostra esistenza, e subiamo simbolicamente l’annientamento che gli animali non umani subiscono fisicamente. Rifiutiamo sia la nostra negazione simbolica, assumendo la fierezza del nostro gesto di disobbedienza, sia la negazione fisica degli animali non umani, denunciandone il massacro: le due cose si intrecciano, e l’una implica l’altra
(Agnese Pignataro, La negazione fisica degli animali attraverso la negazione simbolica dei vegetariani).
A noi sta il compito, forse, di discutere come questo dispositivo di normalizzazione antropocentrico si intrecci con altri dispositivi normalizzanti che creano altrettanta sofferenza in alcuni soggetti umani respinti ai “margini”. In un certo senso, le nostre lotte dovrebbero tutte porsi il problema di chi viene reso invisibile, e in che modo.
Fonti
A.A.V.V., Riflessioni sulla vegefobia, opuscolo, http://it.vegephobia.info.
Carol J. Adams, The sexual politics of meat. For a Feminist-Vegetarian Critical Theory, Continuum, New York 2004.
Egon Botteghi, Siamo tutte frocie: mettere a frutto il potenziale queer del veganesimo (http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=384:siamo-tutte-frocie-mettere-a-frutto-il-potenziale-queer-del-veganesimo-di-egon-botteghi).
Leo Bersani, Homos. Diversi per forza, Pratiche editrice, 1998.
Antonella Corabi, Letteralmente, paura dei vegetariani. Concretamente, animali al macello, http://it.vegephobia.info/index.php?post/2009/12/01/Vegefobia.
jdavidcharles, Intersezione di soggettività vegan e queer: alcuni pensieri, in Anguane (http://anguane.noblogs.org/?p=1735).
David Olivier, Una volontà di farci vergognare della nostra preoccupazione per gli animali, in Riflessioni sul Veggie Pride, http://it.vegephobia.info/index.php?post/2010/01/01/Una-volont%C3%A0-di-farci-vergognare-della-nostra-preoccupazione-per-gli-animali.
Agnese Pignataro, La negazione fisica degli animali attraverso la negazione simbolica dei vegetariani, in L’animale è politico, http://www.veggiepride.it/index.php?option=com_content&view=article&id=34:lanimale-e-politico&catid=6:documenti&Itemid=11.
Rasmus Rahbek Simonsen, Manifesto queer vegan, Ortica, Aprilia 2014.
Chloë Taylor, Abnormal Appetites: Foucault, Atwood, and the Normalization of an Animal-Based Diet, in «Journal for Critical Animal Studies», vol. 10, n. 4, 2012.