Intersezione di soggettività vegan e queer: alcuni pensieri – by jdavidcharles

Ripubblichiamo un interessante articolo su queer, veganismo e vegefobia, apparso sul blog del collettivo Anguane __ Intersezione di soggettività vegan e queer: alcuni pensieri – by jdavidcharles__

Dico raramente che sono vegan. Se partecipo ad un barbecue scelgo di passare pigramente oltre il pollo e prendere un cucchiaione extra di fagiolini e proseguire per la mia via. Ma la gente ha un curioso desiderio di sapere, di classificare coloro che si comportano in un modo non familiare. Da questo punto di vista c’è qualcosa di queer nel veganismo, e data la resistenza che incontro dichiara la mia posizione – un posizionamento – politica.

Ciò è particolarmente curioso poiché il veganismo è in sé un’assenza, un rifiuto di qualcosa, che si palesa data la normatività del consumo di carne: “il chiodo che sporge va preso a martellate”, dice il proverbio. Questo mi ricorda in qualche modo il martello di Heidegger, il martello rotto, un insuccesso che di volta in volta dà colori e forme al mio essere. “Il personale è politico”, come recita il mantra della seconda ondata femminista. Ciò che ritengo un rifiuto personale di qualcosa è considerato, come è in effetti, una posizione politica. Mi chiedereanno perché non ho preso un kebab, perché ho preso i fagiolini, ecc., e sebbene queste domande possano essere autentiche e genuine, scaturiscono dal desiderio di sottolineare questa posizione, ritenendomi un soggetto, e indicarla come questione politica. Queste stesse affermazioni e domande rinforzano il mio rifiuto quale atto politico. Piuttosto interessante, ovviamente, è il fatto che se dico di essere vegan per ragioni di salute tutt* sono legittimat* e sicur* nella loro posizione di mangiacarne – “beh, è la cosa migliore per te e va bene, ma non funzionerebbe per me”. Ma offrire spiegazioni sulle ragioni per cui ritengo sbagliato supportare la macellazione degli animali non-umani, è chiedere di dare corpo – carne – alla mia pratica personale, è parlare della politica del mangiar carne. Davvero, è chiedermi dove penso loro si posizionino, su quale terreno fondano le loro basi. E presumono, sperano, che non dirò “laggiù dall’altra parte, con coloro che sostengono la distruzione della vita animale”. Ed è qui che entrano in gioco tutte le risposte standard delle ragioni per cui una persona non è vegan, ma che “davvero davvero, ma veramente” ha a cuore gli animali. Questo si riduce al tentativo di riposizionarmi “laggiù dall’altra parte della distruzione” (di solito sottolineando ‘l’ipocrisia’ della mia posizione) o riposizionando se stess* come persone fantastiche, gentili e compassionevoli, che si sentono di essere (se solo io potessi vedere quanto hanno a cuore i loro gatti!). Ignorano la questione fondamentale: se sia un bene o un male o ne valga la pena dare soldi alle multinazionali che traggono profitto dall’allevamento, dallo sfruttamento e dall’uccisione di animali non-umani. Rimandano la questione alla teleologia – sul personale trattamento dell’animale – piuttosto che all’ontologia o all’etica animale. Questo in parte è dovuto al fatto che è un argomento scomodo – specialmente quando mentre io mangio dei fagiolini e loro hanno in mano unacoscia di pollo. Ma allora perché porre la questione? Penso sia simile a quando si chiede del proprio orientamento sessuale. Derrida usa l’elegante e impronunciabile neologismo di carnofallologocentrismo, che probabilmente lo ha reso popolare ai party. La soggettività, ciò che costituisce in particolare il soggetto occidentale, è una interpenetrazione di carno, da carne – ciò che può essere consumato/maneggiato/ ricevuto; phallo, ovvero mascolinità/virilità – ciò che si può “scopare”, e logo, la ragione – ciò di cui si può parlare, discutere, legittimare. E’ questa struttura della soggettività – di ciò che si fa e che dovrebbe essere fatto, e di come sia positivo tutto ciò che si sta facendo – che la gente non vuole davvero mettere in discussione. Quindi, le ragioni per cui penso la gente chieda spiegazioni delle proprie scelte alle persone vegan e queer (ma anche a persone di colore e con disabilità e con taglia conformata e molte altre cose che sono al di fuori dell’esperienza di corpo abile, bianco, privilegiato) sono da rintracciare nel tentativo di considerare le proprie posizioni politicamente e soggettivamente solide e determinate. Questo re-inscrive la loro posizione come centrale così come cibarsi di carne re-inscrive questi comportamenti. Mentre ero in chiesa, una volta mi è stato detto – palando di un aspetto della liturgia che ritenevo problematico – che non cambiamo la volontà di dio per noi stessi, ma cambiano la nostra per lui (sic). E così inscrivendo in me la liturgia, reiterandola, avrei creato e ospitato nuovi desideri – i desideri corretti - e avrei trovato la giustificazione teologica per la celebrazione liturgica. C’è una verità radicale e tremenda in tutto ciò. Queste repliche sono pratiche apprese che formano il nostro senso di centralità, il terreno sicuro su cui muoversi, e addirittura formano i nostri desideri. Sono date per scontato, sono incise, sono esteriori – non intendo insinuare però che siano delle scelte semplici. Credo che la carne sia considerata molto gustosa da molte persone. Credo che molte donne siano attratte “solo” dagli uomini. E così mangiare carne e l’eteronormatività sono anche un mezzo per posizionarsi socialmente in un posto centrale, stabile e benestante. E’ questa posizione centrale che la pratica vegan e l’esistenza queer destabilizzano, o almeno minacciano di destabilizzare, con le loro istanze e pratiche politiche. Per parafrasare Gloria Steinem, il problema non è quello di imparare nuove pratiche e costruire nuovi desideri, ma di disimpararli. Il problema è il modo in cui costruiamo la soggettività, attraverso una serie di pratiche del corpo – quali mangiar carne, l’eterosessualità eterosessista, e il lor peso quali simboli culturali – e le reiteriamo socialmente, così da farle sembrare naturali, emanate da dio, trascendentali. Il veganismo e l’esistenza queer rigettano simultaneamente queste pratiche e ne propongono di nuove. Il veganismo è una pratica che ha disimparato la retorica del “maneggiare carne”, “prenderla come un uomo”, “diventare un uomo”, “fare un favore al corpo” etc. e propone una pratica basata sulla compassione e l’umiltà. Allo stesso mod,o l’esistenza queer rigetta l’eteronormatività, l’eterosessismo, il binarismo sessuale e abbraccia una pratica di disponibilità verso le persone basata sulla mutualità e il consenso, senza tener conto dei binarismi (femmina/maschio, etero/omo, etc.). Ovviamente il veganismo e l’esistenza queer sono due cose distinte e ‘scegliere’ uno stile di vita vegan è una cosa molto diversa dal processo di identificarsi come queer. Nonostante ciò, i due aspetti si intersezionano in modi simili e interessanti, il senso della minaccia provata, la consapevolezza politica, l’attacco alla costruzione rispettivamente dell’eteronormatività e del mangiar carne e nella possibilità di cambiamento. Per citare Teresa de Lauretis, “perché ciò che c’è davvero in ballo non è tanto come ‘rendere visibile l’invisibile’ ma come produrre le condizioni di una visibilità per un nuovo soggetto sociale”. Un soggetto, si spera, non centrato sul consumo, l’odio e l’apatia, ma sulla compassione, l’amore e il consenso. __ ''by jdavidcharles



Fonte originale traduzione di monsieur colette''

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