I paradossi dell’estremismo carnivoro sarebbero persino divertenti. Se non esistessero i macelli...

I paradossi dell’estremismo carnivoro sarebbero persino divertenti. Se non esistessero i macelli...

Marco Reggio

Il trattamento riservato dalla stampa ai vegetariani e ai vegani, si sa, non è dei migliori. Quando non si riscontra un (imbarazzato?) silenzio sulla presenza di questi strani personaggi, ci si imbatte in informazioni distorte, luoghi comuni, descrizioni grottesche, larghe concessioni agli aspetti più folkloristici della questione.

Si tratta di semplici impressioni di un lettore vegano, certamente. Sarebbe interessante vedere anche in Italia qualche studio sistematico sulle modalità con cui i mass-media descrivono – depotenziandolo politicamente – il rifiuto di cibarsi di animali uccisi o di prodotti del loro sfruttamento, come avvenuto con il lavoro di Cole e Morgan relativo alla stampa britannica.

Abbiamo comunque a disposizione, di tanto in tanto, del materiale piuttosto interessante su cui riflettere. Un articolo di recente pubblicato sul sito de “Il Giornale” (“Mangia ‘corretto’ e morirai di fame. I paradossi dell’estremismo alimentare sarebbero persino divertenti. Se non fossero letali...”) esemplifica in modo illuminante alcuni strumenti vegefobici a disposizione dell’informazione di massa in una società che di mettere in discussione la violenza innegabile di allevamenti e macelli sembra proprio non volerne sapere (1). Proviamo a vedere come operano.

Alterare il messaggio implicito nel veganismo.

“un vegano ... si farebbe sbranare da una tigre per rispettare la volontà della natura.”

Semplicemente evocando un’immagine quasi pittoresca – quella di un umano nella foresta che offre il proprio corpo ad una tigre, senza neanche cedere alla tentazione di fuggire a gambe levate -, l’autore riconduce il rifiuto di cibarsi di animali ad un’etica del sacrificio che nessuno, di fatto, abbraccia in senso così radicale. Mettere in discussione lo sfruttamento sistematico di miliardi di schiavi diventa automaticamente una messa in discussione della predazione se non del conflitto in senso assoluto, la teorizzazione di un mondo completamente pacificato che, comunque – ci avverte il cinico giornalista -, non “funziona”, poichè le tigri non la pensano come i vegani. E se le tigri ci ripagano così dei nostri buoni propositi... tanto vale mangiarsi le mucche.

In realtà, si tratta di un’astuzia dell’autore che ricalca l’ormai classica obiezione di molti carnivori correntemente chiamata “il leone e la gazzella”. L’autore dice: siccome i vegani sono tali perchè idolatrano la “Natura”, con le sue leggi immutabili e refrattarie all’etica, devono rispettarla fino in fondo, e dunque farsi mangiare dal predatore, la tigre. Allo stesso tempo, i carnivori umani sono legittimati a mangiare animali perchè rientra nel ciclo “naturale”. Quello che viene omesso è che essere contro l’uccisione e lo sfruttamento degli animali non significa essere dalla parte di qualche supposta “legge di natura”, ma esprimere una precisa scelta etica, una scelta che per definizione non rientra nel mondo della necessità, ma al contrario della possibilità.

Ecco quindi che il dispositivo anti-vegetariano sembra avere un’ulteriore implicazione. Il mondo è diviso in due, umani da una parte e animali (la “natura”) dall’altra: gli animali da carne in fondo si meritano di essere macellati senza pietà dato che i membri di un’altra specie sono predatori. Il giornalista non è neppure sfiorato dall’idea che quando una persona diventa vegetariana difficilmente sta pensando... alle tigri.

Mettere contro i “moderati” e gli “estremisti”

“Un vegetariano, per esempio, la zanzara alla fine forse la schiaccia, ma un vegano no”

C’è qui all’opera un’iper-semplificazione. Nella realtà, io ho conosciuto vegani che schiacciano le zanzare, vegetariani che non lo fanno, e persino carnivori che disapprovano questa azione. Il motivo è relativamente semplice: il conflitto fra umani e zanzare e il rapporto di sottomissione fra allevatori e allevati sono due questioni diverse. Non che non esistano punti di contatto, nessi o aspetti psicologici o ideologici comuni: tutt’altro. Ma è evidente che il piano dei due problemi è agevolmente distinguibile. Per questo non è possibile associare un maggior rigore etico nel proprio modo di gestire il problema del fastidio delle punture di zanzara con un maggiore rigore nella gestione concreta del proprio rifiuto di mangiare animali. Insomma, non è che più una persona è attenta a non consumare prodotti dello sfruttamento animale, e meno zanzare schiaccerà, o più specie di insetti includerà nella propria idea di “essere senziente”. Il motivo per cui viene proposta questa fantasiosa equazione è quello di mostrare che esistono persone che difendono gli animali da carne non mangiandoli, ma che in fondo non fanno sul serio. Non fanno sul serio perchè sono soltanto vegetariani, e perchè schiacciano le zanzare. Al contrario quelli che “fanno sul serio”, sono evidentemente degli estremisti. La spia di questo, secondo l’approccio dell’autore, è in sostanza tanto nella maggior coerenza a livello di consumo (i vegan non mangiano neanche latte, uova e miele) quanto in un rifiuto più radicale di tutta la violenza nei confronti degli animali (non schiacciano neanche le zanzare). Il caso paradigmatico scelto (non schiacciare le zanzare), ovviamente, è quello fra i più discussi anche fra gli animalisti e fra i vegan, quello che più divide, appunto. In questo modo, persino chi è espressamente contrario allo sfruttamento animale, si sente tirato per la giacchetta al riguardo di un problema che ha poco a che fare e che viene presentato come un problema definitivamente risolto grazie al suo stesso estremismo vegan: se sei vegan, le zanzare non si schiacciano; se invece per te la questione delle zanzare è aperta, allora sei indotto a pensare che i vegan sono dei fondamentalisti.

Concentrarsi sugli aspetti marginali

“Non si mangia neppure il miele delle api, perché «non si ruba il frutto del lavoro altrui». Idem per le uova delle galline, o per il latte delle mucche.” “Anche un antibiotico è uno sterminio, quindi andranno rispettati perfino i tumori, non vorremo avvelenarli con la chemioterapia?”

Capita spesso ai vegan di sentirsi dire, come prima manifestazione di curiosità (ma è davvero pura curiosità?), se mangiano il miele, perchè non lo mangiano e come fanno a vivere senza. L’ultimo di questi dubbi mi ha sempre fatto effetto: come si può pensare che per chi non mangia carne, pesce, latte e uova la mancanza di miele nella dieta possa costituire un problema? E’ una domanda che sfiora il ridicolo. Non è detto che la sofferenza delle api sia un aspetto marginale nell’ambito dello sfruttamento animale a fini alimentari, ma di certo la questione dell’eliminazione del miele nella dieta umana lo è: sul piano nutrizionale, sul piano del reperimento degli alimenti, dell’organizzazione della vita, e persino della socialità in un mondo specista. Dunque, perchè parlare prima di tutto di questo? Appunto perchè è un aspetto marginale, e perchè riporta il messaggio di solidarietà verso i non umani su un piano di fanatismo, di perfezionismo etico o di consumo in cui i vegani finiscono per essere degli intransigenti che si preoccupano dei fenomeni meno gravi (o percepiti come tali dalla maggioranza). Il carnivoro può dunque tranquillizzarsi: dato che il “pacchetto” è unico - prendere o lasciare – se trova esagerato preoccuparsi di rubare un po’ di ore lavorative alle api, può trovare irrilevante anche l’indignazione verso il trattamento riservato alle mucche o ai polli.

Come si vede nell’esempio degli antibiotici, questo meccanismo funziona persino con degli elementi che non solo sono marginali nella pratica vegan, ma perlopiù non vi sono compresi: quanti vegan non usano gli antibiotici per non “sterminare” i batteri? O addirittura non usano farmaci per “rispettare” i tumori? Nessuno (2), ma l’avvertimento all’aspirante vegetariano è chiaro: se metti in discussione la bistecca, prima o poi dovrai vietarti anche gli antibiotici e l’aspirina.

Presentare tesi etiche in una forma bizzarra

“Non si mangia neppure il miele delle api, perché «non si ruba il frutto del lavoro altrui».”

A chi ha a che fare da tempo con la “retorica” animalista questa espressione sembra normalissima. Tuttavia, l’idea che i prodotti di un animale siano il frutto del suo lavoro suona poco credibile al lettore medio. Quella che potrebbe essere, in effetti, una descrizione quasi letterale di ciò che avviene (un furto), è per la maggiorparte delle persone un’ardita metafora. In contrasto a questa motivazione, che appare quindi zoppicante, ecco la prescrizione che ne deriva, espressa con il massimo della perentorietà: “non si mangia neppure...”. Il vegano è dunque un visionario che sulla base di una visione distorta di fenomeni banalissimi lancia anatemi, elabora regole ferree e indiscutibili su cosa si può fare e cosa non si può fare.

Associare il veganismo a pratiche ascetiche estreme

“Tuttavia perfino il vegano è ancora troppo cinico per un fruttariano, il quale mangia solo frutta e verdura che non abbiano danneggiato la pianta” “Certo, qualcosa dovranno pur mangiarla pure i gianisti, ma in India ci sono quelli che si nutrono di prana, di energia vitale, tipo Prahlad Jani che non mangia e non beve da settant’anni. Tutto vero, tutto verificato, non si sa da chi.”

E’ sempre utile accostare – anche senza individuare dei veri e propri nessi – il veganismo ad altre pratiche alimentari maggiormente restrittive. Poichè le motivazioni di queste pratiche sono inintelligibili sostanzialmente a chiunque, il veganismo è preso in un continuum di ascetismi senza fondamento, senza motivazioni sensate e senza considerazione della realtà circostante. Poco importa se il veganismo è sostenibile sul piano dei sentimenti e delle argomentazioni razionali potenzialmente comprensibile da tutti.

Ingigantire le difficoltà quotidiane

“Non è solo questione di cibo, anche vestirsi è un casino”

Chi più chi meno, tutti sappiamo che scegliere di non consumare prodotti dello sfruttamento animale porta con sè difficoltà, dispendio di energia, e qualche problema di socialità. Sappiamo anche che, nonostante un sistema strutturato sull’industria della carne, del latte, delle uova o della pelle, l’aumento del numero di vegetariani e l’avanzamento tecnologico stanno facilitando almeno in parte la messa in pratica del veganismo. Le difficoltà, quindi possono essere sminuite ad arte, come fanno spesso alcuni vegani, ma possono anche essere ingigantite altrettanto ad arte, come in questo caso, in cui la questione del cibo e del vestiario viene liquidata con un giudizio sommario: “è un casino”.

Concentrarsi sul veganismo come stile di vita

Tutto l’articolo affronta le questioni etiche come questioni che si esprimono, essenzialmente, in uno stile di consumo, in una modalità di scelta di questo o quel prodotto sullo scaffale del supermercato: dall’opposizione alle pratiche antisindacali della Coca-Cola alla sensibilità ambientale, dalla lotta contro lo sfruttamento bambini a quella contro lo sfruttamento degli animali. Tutte le istanze di contestazione, di critica etica o politica, di opposizione alla violenza possono esprimersi, secondo il giornalista, come scelte di consumo. In altri termini, come scelte individuali che non mettono in discussione le strutture che reggono la violenza, ma che mirano a perfezionare il rifiuto personale della violenza nell’ambito del consumo, sconfinando poi in un’attenzione maniacale alla coerenza individuale. Per quanto riguarda il veganismo, intendere la pratica di rifiutare il massacro degli animali in questo modo riduttivo (il cosiddetto “stile di vita vegan”) facilita di molto il lavoro di rimozione del messaggio di solidarietà nei confronti degli animali. L’attenzione non più sulle vittime, ma chi le difende e sul suo grado di coerenza (3).

Riaffermare i valori specisti

“Per camminare ci sono le scarpe vegane, che non utilizzano colle derivate da grassi animali. Sono brutte da fare schifo ma si cammina senza sensi di colpa.”

A prescindere dalla motivazione per cui i vegani non indosserebbero le scarpe “tradizionali” (ancora un modo di concentrasi sugli aspetti marginali: le scarpe “tradizionali” vengono rifiutate perchè fatte di pelle animale, ma qui il focus è – curiosamente – sulla colla...), l’autore presenta un contrasto fra la gradevolezza estetica delle scarpe e la sofferenza degli animali. Quest’ultima, peraltro, non viene neanche chiamata in causa direttamente, ma – come prevedibile – attraverso un riferimento alla sensibilità dei vegani, preoccupati evidentemente non tanto di far del male a qualcuno quanto di sentirsi “in pace con la coscienza”. Il contrasto fra estetica (del consumatore umano) ed etica è, se ci pensiamo, quasi osceno. Ma la naturalezza con cui viene presentato serve a riaffermare i valori specisti. Anzi, più è insignificante l’interesse umano (non indossare scarpe brutte), meglio è. L’autore avrebbe potuto almeno chiamare in causa la necessità di indossare calzature comode, o resistenti, o adatte alla postura di chi le usa. Ma così il messaggio è ancora più chiaro: la sofferenza degli animali conta così poco che anche un capriccio estetico finirà per prevalere.

Confondere un atto politico con il proibizionismo

“Alla fine perfino a me che di carne ne mangio pochissima il libro della Duve ha fatto venire un intenso desiderio di addentare una bistecca al sangue. Come gli avvisi sulle sigarette ti fanno venire voglia di iniziare a fumare o non smettere mai”

Quando gli attivisti per l’abolizione della carne rivendicano la chiusura di macelli e allevamenti, la prima risposta è quella che chiama in causa la libertà individuale: non si può imporre alle persone di non mangiare carne. Come se non ci fossero di mezzo altri soggetti, con dei propri interessi, la cui libertà viene violata (molto più gravemente) nel momento in cui i cittadini hanno ed esercitano il “diritto” di mangiarne i corpi. In questo quadro simbolico e culturale, è quindi utile presentare la richiesta di farla finita con la carne come una richiesta salutista, di cura della propria persona, di attenzione alle proprie abitudini alimentari. Una reazione che pur esiste ma che è difficilmente giustificabile (quella di chi, di fronte all’argomento secondo cui la carne è violenza, si sente spronato maggiormente a commetterla) diventa una reazione che suscita simpatia, quella dell’essere umano imperfetto che reagisce alle ingerenze di qualche persona pedante ammettendo e rivendicando le proprie imperfezioni come se fossero completamente “affar suo”.

Negare la sofferenza animale

“Se un pollo muore d’infarto immagino si possa mangiare, forse per questo gallina vecchia fa buon brodo.”

La comprensione del fatto che l’avversione alla carne è in realtà un’avversione all’uccisione degli animali si esprime qui in modo apparentemente molto acuto: il problema è etico (e tutt’altro che religioso), dunque un vegano – e persino un fruttariano – potrebbero mangiare un animale morto di morte naturale. Tuttavia, con un colpo di scena, l’esempio che viene portato a supporto è estremamente fuorviante: un pollo che muore d’infarto, che sarebbe poi la gallina con cui viene fatto il brodo. Insomma, si potrebbe quasi pensare che molti animali che ci mangiamo siano morti “naturalmente”, e magari felici. Peccato che quasi nessun pollo arrivi all’età in cui si muore “d’infarto”, e che anche se vi arrivasse, vi arriverebbe dopo una vita di stenti, di reclusione, di violenze fisiche e psicologiche.

NOTE

1. Va sottolineato come l’articolo prenda di mira un particolare testo (K. Duve, "Il giorno in cui decisi di diventare una persona migliore", Neri Pozza, 2012), che in effetti è tutt’altro che rappresentativo del mondo vegano e soprattutto di quello animalista. La scelta stessa di commentare proprio questo libro ci dice forse qualcosa sulla volontà di ridicolizzare un tema importante, mettendone in luce le derive più estreme sul piano dell’attenzione maniacale al consumo individuale, della purezza quasi religiosa, e del misticismo new age.

2. Molti vegan non usano antibiotici per motivi animalisti (contrarietà alla vivisezione) o salutisti (preferenza per terapie “alternative”), ma "raramente" – se non "mai" - per i suddetti motivi. Certo, spesso questi motivi non sono distinti adeguatamente fra loro, non sono chiariti, e finiscono per costituire un insieme confuso da cui emerge una generica contrarietà alla medicina moderna in quanto tecnologica, o in quanto "innaturale".

3. Si veda, sul tema: A. Corabi, "Diffondere lo stile di vita vegan: una critica".

Comments

1. On Tuesday, July 17 2012, 15:09 by Serena

Bellissimo questo articolo! Mi era sfuggito il pezzone del Giornale. Diffondo.

2. On Friday, September 26 2014, 10:51 by Betacentury

Un articolo pieno di nulla.

Si parla, parla, parla... ma il messaggio finale dov'è?
Si critica il pressapochismo del giornalista lapidandolo con altrettanto pressapochismo, spesso senza aggiungere nulla di nuovo.

Più che leggere un articolo di un blog sembra di leggere un esercizio di stile.

3. On Thursday, October 2 2014, 17:08 by andrea nobilio

Date a noi degli incoerenti perché anche se ci piacciono gli animali poi mangiamo carne e derivati. Foste migliori avreste gia riconsegnato la Vs tessera sanitaria per non usufruire di tutte quelle procedure e medicine sperimentate e perfezionate sugli animali. Vorrei vedere al primo infarto o al primo tumore cosa farete...
Andrea Nobilio

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