Repetita juvant: cos'è la vegefobia. Per chi critica senza sapere.

Repetita juvant: cos'è la vegefobia Per chi critica senza sapere

L'articolo "Teriofobia" di Marco Maurizi, recentemente pubblicato sul blog Asinus Novus, contiene nella sua seconda parte una critica della nozione di vegefobia, che propone di sostituire con quella di teriofobia illustrata nella prima parte dello scritto. Ci siamo trovati concordi sulla necessità di rispondere a questo articolo per correggere in modo puntuale il modo in cui esso rappresenta la vegefobia. Cogliamo l'occasione per segnalare un interessante contributo sul tema, l'articolo "Vegafobia" dei sociologi britannici Matthew Cole e Karen Morgan (tradotto dall'inglese dal blog vegephobia.info), che oltre a contribuire al dibattito sulla vegefobia ci sembra concordare con le nostre tesi e dunque in qualche modo rinforzarle, attraverso un'analisi sociologica rigorosa. Mentre le diffuse resistenze che l'idea di vegefobia ha incontrato finora nel movimento animalista erano basate sul rifiuto di credere all'esistenza di questo fenomeno, l'articolo di Maurizi non nega che la vegefobia esista ma ne limita l'importanza, in nome della ricerca di una maggiore inclusività e coerenza che l'autore crede ravvisare nel concetto di teriofobia.

Ora, la validità di questa tesi può essere giudicata solo se del termine che essa vuole scartare, cioè "vegefobia", si dà conto in modo veritiero, cosa che non è stata. Vogliamo perciò sottolineare con la più grande fermezza il fatto che il termine che la tesi di Maurizi vuole perdente, la vegefobia, è stato riportato in modo distorto e che, per questo motivo, il confronto con la teriofobia è viziato da un errore di fondo. Intendiamoci, anche avendo un'idea corretta della vegefobia si può non essere convinti della proposta di Maurizi, e infatti noi non lo siamo. Ma non è questo il contesto in cui spiegheremo le nostre perplessità. In questo momento ci interessa arrestare il deplorevole effetto valanga provocato dall'articolo "Teriofobia": una sorta di corsa agli armamenti terminologici in cui tutti si gettano sulla novità del momento, attirati dal carisma di chi le propone piuttosto che convinti dai suoi ragionamenti, spesso compresi male o addirittura per niente (abbiamo ad esempio letto in un blog l'interpretazione secondo cui Maurizi avrebbe semplicemente proposto di cambiare termine, teriofobia al posto di vegefobia, lasciando intatto il contenuto!)

Di certo queste precisazioni ci pesano perché il nostro interlocutore, che non disdegna la lettura e il rigore dell'argomentazione filosofica, sa benissimo che se si vogliono confutare le idee altrui è buona norma riportarle in modo attendibile, con citazioni e rimandi il più possibile esatti. Queste precisazioni ci pesano perché il buon senso dice che non dovremmo esser noi a farle, che l'onere della prova spetta a chi critica. Il nostro interlocutore, invece, dopo che gli è stata fatta notare la mancanza di precisione del suo testo, non solo non prova imbarazzo, ma ci controbatte che siamo noi a dover riportare "i passi in cui questa imprecisione o falsità è evidente". Eccoli qui, allora.

1. La vegefobia è una discriminazione degli animali? No, se non sul piano del discorso.

L'articolo "Teriofobia" afferma che

«Il discorso sulla vegefobia non solo non aiuta a chiarire la differenza e ad articolare il rapporto tra discriminazione e sfruttamento, ma addirittura confonde ancora di più le cose, parlando della discriminazione degli animali attraverso la discriminazione degli umani.»

I testi di approfondimento sulla vegefobia non hanno mai parlato di discriminazione degli animali. Al limite, si è parlato del rifiuto da parte della società di prendere in considerazione la morte degli animali come evento tragico: la discriminazione, cioè, avviene sul piano del discorso di cui gli animali sono l'oggetto, certo non su quello delle pratiche come fattore scatenante del trattamento degli animali.

Si veda un testo di Antonella Corabi, significativamente intitolato "Letteralmente, paura dei vegetariani. Concretamente, animali al macello", e in particolare questo passaggio:

«Il ridicolo, la disapprovazione, la negazione, non sono per noi veg*ani. Sono gli animali i veri destinari delle risatine e delle battute spiritose, della disapprovazione, della negazione. Si ride perché c’è qualcosa di grottesco e di buffo che suscita lo scherno. Il ridicolo nasce dalla contrapposizione tra i discorsi sulla dignità animale da una parte e l’immaginario sugli animali dall’altro, nel quale sono sostanzialmente buffi fantocci dalle cosce succulente, imbecilli senza ragione, masse di carne con cui non si interloquisce, essendo considerati oggetti e null'altro. Corpi spellati e conciati in pezzi, violentemente manipolati, ridotti a un mucchio di braciole, filetti, prosciutti, bistecche, oggetti di uso comune, disseminati nella quotidianità, su cui la sola possibilità di discorrere di alti valori morali suscita il sorriso come se parlassimo della sensibilità dei temperamatite o dell’intelletto dei cavatappi.»

In verità, l'espressione "discriminazione degli animali attraverso la discriminazione dei vegetariani" ricorre unicamente nel comunicato che due mesi fa annunciava il mancato svolgimento del Veggie Pride 2012 in Italia: basta un'espressione usata a mo' di slogan in una recente comunicazione di servizio per inficiare una lunga riflessione iniziata più di dieci anni fa?

2. La vegefobia è una negazione simbolica degli animali? No, è la loro negazione fisica attraverso la negazione simbolica dei vegetariani.

L'articolo "Teriofobia" afferma che

«a suo supporto (del discorso sulla "vegefobia") è stato infatti elaborata la teoria della “negazione simbolica” degli animali attraverso la discriminazione dei veg*ani. In sostanza, denunciare la “vegefobia” è un modo per ricordare come sia la voce stessa degli animali uccisi ad essere silenziata attraverso la “discriminazione” dei veg*ani.»

Nessuno ha mai parlato di "negazione simbolica degli animali": chi potrebbe mai affermare una sciocchezza del genere? L'espressione, che Maurizi ricorda male e cita a rovescio, si trova nell'articolo "L'animale è politico" di Agnese Pignataro e definisce la vegefobia come la negazione fisica degli animali attraverso la negazione simbolica dei vegetariani. Il paragrafo da cui è tratta l'espressione afferma:

«noi abbiamo diritto, fondamentalmente, a non essere negati, né fisicamente, né simbolicamente; ma come vegetariani, viviamo l'imposizione di una negazione da parte della società, che non riconosce la nostra esistenza, e subiamo simbolicamente l'annientamento che gli animali non umani subiscono fisicamente. Con il Veggie Pride, rifiutiamo sia la nostra negazione simbolica, assumendo la fierezza del nostro gesto di disobbedienza, sia la negazione fisica degli animali non umani, denunciandone il massacro: le due cose si intrecciano, e l'una implica l'altra.»

3. La vegefobia colpisce genericamente chi si astiene dalla carne? No, colpisce la nostra solidarietà con gli animali.

L'articolo "Teriofobia" afferma che

«...non è il fatto di astenersi dal “mangiare carne” di per sé a provocare la reazione sarcastica, stizzita o autoritaria denunciata come “discriminatoria”. È il fatto di mostrare solidarietà con la vita animale (umana e non-umana) che costituisce l’architrave del sistema sociale vigente a far scattare il meccanismo difensivo che porta alla derisione o al linciaggio (per fortuna solo simbolico) di chi esercita quella solidarietà»

Non sappiamo se definire tragica o comica questa affermazione. Da sempre la solidarietà nei confronti degli animali è il perno della lotta contro la vegefobia. Il primo articolo di riflessione sul Veggie Pride (David Olivier, "Riflessioni sul Veggie Pride", Cahiers Antispécistes n°22, 2002) definiva la vegefobia "una volontà di farci vergognare della nostra preoccupazione per gli animali".

Il Manifesto del Veggie Pride dice:

«Il vegetarismo pone in discussione la legittimità dell'imprigionamento e dell'uccisione di miliardi di animali. La sua mera esistenza rompe l'omertà. Ecco il motivo dello scherno e dell'odio vegefobici».

E ancora:

«Noi rifiutiamo di vergognarci della nostra compassione. Non vogliamo più nasconderci. Non vogliamo più scusarci di non voler uccidere. Siamo qui, esistiamo, pensiamo e lo diciamo.»

E si conclude con questa frase: «Siamo animali solidali con tutti gli animali!»

Ancora, nell'articolo di Agnese Pignataro succitato, si legge:

«Queste rivendicazioni (del Veggie Pride) non rappresentano, come si potrebbe ingenuamente pensare, un'involuzione egoista del soggetto vegetariano, preoccupato di proteggersi e di vedere riconosciuta e tutelata la propria nicchia. Al contrario, si tratta della massima estensione della solidarietà. Una solidarietà che consiste infatti nel proiettare sull'animale non umano, che nella società umana è un non-essere, un vuoto, un nulla, l'essere che a noi è doppiamente riconosciuto, in quanto umani e in quanto cittadini.»

Conclusione

I difetti che Marco Maurizi attribuisce alla nozione di vegefobia sono pretestuosi, perché basati su una sua rappresentazione faziosa, discordante con tutto ciò che sulla vegefobia si può leggere. Si tratta di una semplificazione funzionale allo scopo dell'autore, che è quello di denunciare come "inficiata dal liberalismo/individualismo/moralismo singeriano e animalista “classico”" ogni linea di pensiero che non corrisponda all'interpretazione dell'antispecismo data da lui stesso. Tutte le visioni alternative alla sua sono liberali (individualiste, astratte, apolitiche, etc. etc.), ripete Maurizi. Sarà difficile dire altrimenti, fintantoché lui stesso continuerà a camuffarle per poterle abbattere meglio (procedimento molto comune, si chiama straw man argument).

In definitiva, tornando all'oggetto del contendere, ovvero se sia meglio parlare di vegefobia o di teriofobia, speriamo che queste precisazioni servano a dare alla lettrice e al lettore elementi utili per valutare la prima nozione con oggettività. Quanto alla seconda nozione, non intendiamo affrontarne l'esame in questa sede, lo faremo a tempo debito. Per il momento ci limitiamo a osservare che non abbiamo mai affermato che la vegefobia fosse l'unica chiave interpretativa delle relazioni tra umani e animali, né che la lotta contro la vegefobia fosse l'unica pista possibile per il movimento di liberazione animale. Il che non implica certo che il concetto di vegefobia debba essere semplicemente visto come più riduttivo di quello di teriofobia, dal momento che i due sono fondamentalmente disomogenei: parlano, cioè, di cose diverse.

Invitiamo infine Marco Maurizi, se mai vorrà risponderci a moderare i toni: per quanto ci risulta, né sassi né ingiurie si sono abbattuti sul suo cranio. A meno che per ingiuria si intenda il semplice fatto di non esser d'accordo con lui, o di fargli notare qualche semplificazione di troppo nei suoi scritti. Nel qual caso gli consigliamo, se proprio non vuol cambiare stile, di equipaggiarsi di un bel casco preventivo. :)

Addendum

Nelle discussioni che hanno seguito la pubblicazione dell'articolo "Teriofobia", Maurizi ha lasciato intendere che la difesa del concetto di vegefobia da parte nostra fosse un "palese tentativo di difendere un'identità di gruppo". Questo è impossibile, per il semplice fatto che non esiste alcun gruppo. Esiste una manifestazione annuale, il Veggie Pride, organizzata da un apposito comitato (i cui componenti variano, come si può intuire, nel tempo); essa non è un evento identitario, ma un momento all’interno dell’agire animalista/antispecista. Un evento, appunto, in cui nessuno pretende di vedere riassunta tutta la propria identità, le proprie concezioni in materia di questione animale, le proprie strategie politiche. Definire una manifestazione "sponsor" di un "marchio" è scorretto: la manifestazione in questione nasce (anche) per esprimere, far discutere e portare in piazza determinati temi. A questa stregua, qualsiasi corteo potrebbe essere considerato uno "sponsor" di qualche "brand", così come riviste, siti e feste varie che si fondino su un'impostazione precisa.

Noi, che abbiamo contribuito a organizzare il Veggie Pride, abbiamo approfondito e discusso il concetto di vegefobia, e ne difendiamo ora la validità e l'utilità. Alcuni fra noi in particolare hanno cercato di ridimensionare il mito dello stile di vita vegan, segnalando il rischio della sua deriva a celebrazione ascetica, dialogando con i vegetariani e quindi dimostrando che i vegani non sono una sètta. Considerate queste premesse, riteniamo possibile e coerente lottare contro la vegefobia e rivendicare la nostra fierezza di disertori del carnivorismo senza temere scivolamenti nell'identitarismo, che lasciamo volentieri ad altri (che certamente non mancheranno).

Brunella Bucciarelli, Antonella Corabi, Agnese Pignataro, Marco Reggio

Comments

1. On Saturday, March 28 2015, 22:42 by Tiziana

E l'odio dei vegetariani/vegani per chi mangia la carne come si chiama? onnivorofobia?

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